“IL PUNTO LFS”: Il caso Maldini-Milan: ma campione sul campo è sinonimo di campione dietro una scrivania?

 

Dopo un lungo corteggiamento l’ex capitano ha detto no: ma sarebbe stato una garanzia di successo? L’analisi LFScouting sulla correlazione “campione sul campo – grande dirigente”.

E’ stato un tormentone lungo quasi un mese, che alla fine si è concluso con un definitivo nulla di fatto: la volontà, da parte della nuova proprietà cinese del Milan, di coinvolgere la leggenda rossonera Paolo Maldini all’interno della nuova società sarà destinata a rimanere tale.

L’ex bandiera anche della nazionale Italiana ha preferito ancora una volta restare ai margini del calcio Italiano, come ha commentato sul suo profilo Facebook. “Il Milan è sempre stato per me un affare di cuore e passione, la mia storia e il legame con i colori rossoneri lo dimostrano. Proprio questo mi impone di essere attento, preciso e professionale nell’accettare l’incarico; certo, sarebbe molto più facile seguire l’emozione della proposta e dire di si, senza pensare alle conseguenze. Invece non posso, devo rispettare i valori che mi hanno accompagnato durante tutta la mia vita, i tanti tifosi che si sono negli anni identificati in me per passione, volontà e serietà, devo rispettare il Milan e me stesso”.

Maldini non ha accettato l’idea di essere DT e dover riportare ogni sua proposta al DG Fassone, non avendo di fatto libertà decisionale e condividendo soltanto la responsabilità per eventuali scelte sbagliate e relative polemiche, che in un periodo molto delicato come quello attuale della società rossonera sono all’ordine del giorno.

Motivazione che spiega perchè un simbolo del Calcio Nazionale sia scomparso dai radar della politica calcistica Italiana dopo il suo addio al calcio. Nel sensibile e difficile contesto in cui il calcio italiano è riversato da ormai un decennio, le società (e la nazionale) preferiscono sempre scegliere l’usato sicuro, non dando di fatto spazio all’innovazione. E’ successo nelle scorse elezioni FIGC a Demetrio Albertini, succede praticamente ogni giorno sui campi di Serie A in cui si dà sempre meno fiducia ai giovani. E questa scarsa propensione al rischio non fa altro che accentuare i problemi, e rimandare le soluzioni.

Tutto ciò crea un circolo vizioso, dal momento che anche gli ex calciatori non sono poi disposti a mettersi in gioco in questa grande polveriera.

Tuttavia, la vicenda Maldini pone le basi per un altro dibattito: Essere campioni in campo, si traduce sempre nell’esserlo anche in scrivania?

Il naturale prosieguo professionale della carriera di un calciatore si esprime nel ruolo dell’allenatore. Ma se l’analisi si sposta, come detto prima, a ruoli dirigenziali, bisogna tenere in conto diversi aspetti.

I calciatori sono in grado di trasmettere la loro “cultura” calcistica e “aziendale” del club nel quale hanno giocato, in termini sia etici che tecnici. E la capacità di creare e saper trasmettere una cultura all’interno di un’azienda è da sempre uno dei fattori chiave di successo di qualsiasi impresa.

In aggiunta, la miglior scuola si fa tramite l’esperienza, e chi è stato alla ribalta di prestigiosi campi di calcio per tanti anni ha, sia da un punto di vista mentale che tecnico, la predisposizione e le conoscenze per essere anche un grande leader e dirigente.

Un forte handicap, tuttavia, risiede  nella eventuale mancanza di capacità manageriali-organizzative, le quali si acquisiscono dopo anni di studio o di esperienza. Per tale ragione un ex calciatore sarebbe più portato a ricoprire ruoli legati comunque all’esperienza sul campo, come il team manager, il direttore sportivo, il capo degli osservatori.

Passando alla realtà, tanti sono gli esempi che confermano le difficoltà. Le storie di Mazzola, Rivera, Antognoni, Bulgarelli, Riva, Bettega, Baresi e Bruno Conti, sono ricordate solo per aspettative mancate.

Non possiamo tuttavia dimenticare casi di eccellenza, dove le competenze calcistiche sono state accomunate a leadership, senso di appartenenza, abilità manageriali: parliamo dei  miti di Boniperti alla Juve, Facchetti all’Inter, o Rumenigge al Bayern.

Senza entrare nel merito, Platini, per anni presidente UEFA, si è costruito una strada di grande successo sul campo politico. Hanno o stanno costruendo grandi carriere, nel ruolo di Direttore Sportivo, Oriali e Leonardo. E poco ancora si può dire sulle esperienze di Nedved e J. Zanetti, in attesa di conoscere le sorti di Del Piero e Totti.

La conclusione è che essere grandi sul calcio non è garanzia di successo anche manageriale. L’esperienza sui campi di calcio deve essere affiancata da leadership, capacità manageriali, e soprattutto, passione e forte affinità con il contesto di cui si fai parte, come testimoniano le “eccezioni” Boniperti e Rumenigge.

Tornando al caso Maldini, considerate anche la sua attuale esperienza da co-proprietario e DT del Miami FC in USA, le basi per far bene al Milan ci sarebbero tutte, ma, evidentemente, il problema, in questa situazione, non sarebbero le indiscusse qualità dell’ex calciatore, quanto le scarse opportunità per esprimersi al meglio in un contesto, quello del Milan, che non garantisce le condizioni per svolgere un ottimo lavoro.

E Maldini, appunto, ne è consapevole, in attesa di tempi migliori.